Il teatro postdrammatico di Lehmann. Un paesaggio di rovine?
Doriana Legge, «Teatro e Critica».
Vent’anni fa parlare di postdrammatico suggeriva il riferimento a una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, dare voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva. L’edizione italiana del libro di Hans-Thies Lehmann (con la traduzione di Sonia Antinori), che arriva con imperdonabile ritardo dalla sua prima pubblicazione nel 1999, ha il pregio di poter innescare un rovesciamento della memoria storica teatrale – dopo il momento sempre problematico per gli studi che porta a sistematizzare in sequenze e correnti artistiche una storia che non è mai lineare. Sono allora le distanze e non le affinità tra pratiche diverse che ci restituiscono la complessità di un periodo in cui le stelle del teatro non cadono più dal cielo, piuttosto nascono dalle rovine.
Ragioniamo allora sul rapporto tra passato e presente del postdrammatico come un periodo incandescente e ancora in atto, ma con delle sacche di resistenza importanti di cui sarebbe anche d’obbligo parlare. Due anni prima dell’uscita del libro – nel 1997 – Dario Fo riceve il Premio Nobel per la Letteratura, lo riceve in qualità di drammaturgo. Cortocircuiti, eppure spie di un pluralismo di cui la scena di fine Novecento ha saputo godere. La fecondità di un post esplosione quando i segni teatrali rompono l’impianto gerarchico per avanzare «verso la pienezza di nuove possibilità, la creazione dopo il crollo».
Ne I giganti della montagna, Pirandello immagina una recita organizzata da una compagnia sbandata, non più in grado di trovare teatri pubblici per i propri lavori. Lo spettacolo si conclude con il sacrificio e la morte dell’attrice Ilse, mentre tutti gli altri attori sono aggrediti da un pubblico indifferente alla scena. Pirandello ci parla del teatro in un tempo schiacciato da forze negative. Ci parla di una frattura, provocata da nuove dinamiche socioculturali che hanno costretto il teatro a mutare il proprio ruolo nella società. La definisce «cavalcata d’un’orda di selvaggi» quella dei Giganti che scendono dalla montagna, che marciano sulle rovine, per andare a inebriarsi di un altro rito, che non è quello teatrale, ma la celebrazione di nozze importanti.
Molti decenni dopo, il postdrammatico prende in carico questa frattura tra la scena e chi la dovrebbe osservare e la fa diventare un’urgenza molto prolifica. Robert Wilson, Gertrude Stein, Heiner Müller, Heiner Goebbles, Robert Lepage, Jan Fabre sono i Giganti – non più indifferenti – che dalle rovine di una società hanno saputo trascendere ogni interpretazione razionale della vita, e portare sulla scena il caos. Hanno saputo vivere il tempo intermittente e sincretico della vita umana e raccontarlo lontano dal logocentrismo. I Giganti hanno costruito nuovi edifici e delle macerie hanno fatto fondamenta di strutture che albergano più in aria che sulla terra.
Invece di attardarci sugli impianti stabili di una proposta che è ormai teoria, bisognerebbe allora cogliere l’invito di Lehmann a pensare il postdrammatico come «un nuovo teatro nel quale le figurazioni drammatiche potranno ritrovarsi, dopo che Dramma e Teatro si sono tanto allontanati» (p. 161).
ll libro di Lehmann, ancor più oggi, ci pare il tracciato che uno storico puntuale e preciso, eppure visionario, ha delineato per individuare il postdrammatico come categoria teorica dai confini mobili. L’invito allora è quello a mettersi in ascolto di quello che sta accadendo attorno. Pensiamo ad esempio a quanto oggi i codici narrativi siano sfruttati nel pubblico come nel privato, attraverso uno storytelling che è risultato del racconto quotidiano di noi stessi. A quanto la narrazione delle azioni sembri fagocitare l’esperienza delle azioni stesse. E come questo possa essere l’ennesima spia di una parola che davvero non basta più. Persino a immaginarla così rapidamente ci pare che questa sia già un’altra storia, di cui presto riconosceremo nuovi Giganti.
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